Le ragioni per cui, un bel pomeriggio di metà novembre del 1981, mi sono seduto al vecchio pianoforte di casa mia, lo stesso su cui avevano studiato i miei genitori, per inventare la canzone dei “coltellacci” sono tante. Forse la principale ha carattere autobiografico. Sì perché cercavo un soggetto che fosse tipicamente viareggino e che mi fosse particolarmente caro. Così mi venne in mente che, quand’ero ragazzo e anche un po’ più che ragazzo, come tanti altri coetanei, aspettavamo in gloria, durante l’inverno, quelle maestose mareggiate provocate dal libeccio e ancor più dal vento di Provenza, per andare sulla spiaggia, quando ormai il mare si andava calmando, a vedere se “straccava” i coltellacci. Armati di secchiello e sfidando il freddo, il vento e gli sbruffi marini, si scalavano i cumuli di lavarone su cui affondavano i piedi e si zuppavano d’acqua.
Seguivamo il ritmo delle ondate che si spianavano sulla spiaggia e quando si ritiravano andavamo a raccogliere i loro doni: coltellacci, nicchi e nicchioni che l’impietosa furia del mare aveva sradicato dalle loro sedi. Era una gioia pura, qualcosa che rammentava l’età dell’oro, quell’era mitica in cui la natura donava gratuitamente i suoi beni a tutti. Allora capivo perché per il popolino viareggino, che durava tanta fatica a mettere insieme il pranzo colla cena, la “straccatura” era una vera e propria benedizione, un amoroso miracolo della provvidenza. A raccogliere i coltellacci era opportuno andarci con gli stivali ma io non ce li avevo ed usavo le stesse scarpe con cui andavo a passeggio, a scuola e alla messa la domenica. Tornavo a casa che le avevo tutte inzuppate d’acqua di mare.
Mia madre, che si chiamava Aretusa (e l’omonimo bagno in Darsena era suo), un nome proveniente dal mito greco, appartenuto ad una ninfa amica di Artemide (ovvero Diana) dea della caccia, era una donna olimpica, mansueta e religiosa ma, se perdeva le staffe, diventava una libecciata di ciaffate che facevano male. Quando arrivavo col secchiello pieno di coltellacci a molle nell’acqua salata era felice del dono. Quando però mi vedeva le scarpe, talmente conce che nemmeno quintali di Nugget avrebbero restaurato, due o tre “stiaffi” dati bene li rimediavo. Ma il sugo di coltellacci era una cosa così divina che meritava di pagare ogni volta quel prezzo. Per me era il sugo di mare più buono che esistesse. Il suo profumo si spandeva per tutta la casa e lo sentivi perfino fuori nella strada. Prova a sentirlo ora tra una macchina e l’altra, se ti riésce!
Oltre all’adorazione che io avevo per la pastasciutta coi coltellacci, questo simpatico, prelibato e quasi riservato frutto di mare mi apparve come un simbolo, quasi un’essenza del viareggino originario e verace, e per più motivi. Il coltellaccio alberga nella rena (e le case di Viareggio dove sono?) nel suo buchetto a tre o quattro metri di profondità sott’acqua. La sua è un’esistenza precaria, affidata interamente alla natura. Basta un turbamento di correnti e viene impietosamente sfrattato dal suo alloggio e sbatacchiato senza riguardi sulla spiaggia. Per questo mi appariva come una metafora del viareggino antico, un uomo che viveva alla giornata, che dipendeva dai capricci del mare, che non aveva alcuna certezza, che sfruttava stagionalmente i beni che la natura gli metteva a disposizione: pesci, muscoli, arselle, pinacci, rossine, anguille cée. Il viareggino viveva in balia del tutto e da un momento all’altro, per una qualsivoglia catastrofe provocata dalla natura, o anche dalla società organizzata, andava incontro al disastro, alla sventura. Come un coltellaccio poteva finire improvvisamente “straccato”, una preda da saccheggiare. Credo, immodestamente, che la ragione di tanto successo della mia canzone dipenda soprattutto dall’aver toccato delle corde profonde nell’animo dei miei concittadini, che ci sia in loro molto del coltellaccio.
Poi esistono anche altre ragioni, altrettanto importanti, che hanno concorso ad inventare questa canzone. Prima di tutto bisogna tornare al contesto in cui è nata. Siamo nei primi anni Ottanta. Il Comitato Carnevale (che diverrà Fondazione una quindicina d’anni dopo) decide di ripristinare il festival per la proclamazione della canzone ufficiale del carnevale di Viareggio. La materia prima per il festival non manca: siamo nel boom delle feste rionali. Attori, musicisti, cantanti e factotum ce ne sono a bizzeffe. Lo spirito carnevalesco popolare è alle stelle. Cosa c’era di meglio del coinvolgerlo e ulteriormente stimolarlo con una competizione artistica? Nacque dunque la Festa della Canzonetta dei Rioni ed ebbe un successo a dir poco strepitoso. Purtroppo, fu di breve durata, ma nel momento migliore si arrivò a ben cinque serate di teatro strapieno. L’evento era talmente atteso e partecipato che aveva finito col fare forte concorrenza alle due feste della canzonetta del Politeama, quella di Egisto Malfatti (ormai stella al tramonto) e quella di Enrico Casani (in quel momento all’apice del successo). Il Malfatti aveva esaurito la sua vena migliore. Gli ultimi spettacoli erano stati un flop, tanto che nell’84 egli decise di abbandonare il palcoscenico del Politeama. Enrico andava a gonfie vele ma si era definitivamente arroccato nel genere della commedia musicale e il pubblico viareggino aveva forte desiderio di uno spettacolo a sketches, più agile da seguire, più vario e con un tasso comico maggiore. Inoltre, gli ambienti delle due canzonette principali erano piuttosto chiusi, riservati ai beniamini consacrati. La Festa della Canzonetta rionale soddisfaceva anche a questa esigenza di rivitalizzare il teatro dialettale viareggino con l’ingresso sulla scena di nuovi giovani talenti, nuovi personaggi che potessero diventare un giorno dei Malfatti e dei Casani.
Ogni rione aveva il compito di approntare uno sketch e una canzone che partecipava al concorso. Io appartenevo al Rione Centro e scrivevo sketch e canzone. Quell’anno (1982) volevo creare un brano che fosse di rottura. La musica ufficiale del carnevale, tolte rarissime eccezioni e di nessun successo, era rimasta sempre la stessa: una polka o marcetta (ritmo di due quarti) o una tarantella (ritmo di sei ottavi). E quasi tutti i miei colleghi di spettacolo continuavano a scrivere entro questi schemi consacrati. Anche dal punto di vista dei testi le canzoni tradizionali erano state piuttosto ripetitive: “vieni a Viareggio e troverai amore e felicità”. Insomma, mi apparivano come “canzoni-cartolina” molto distanti dalla realtà in generale e dal gusto musicale, specialmente quello giovanile, di quegli anni. Ricordo le lamentele di tanti ragazzi che salivano sui carri, perché erano costretti a sentire alla nausea sempre i soliti pezzi e avevano fame di una musica nuova, più aggiornata, più vicina alla loro mentalità. Non avendone finivano coll’introdurre sui carri canzoni nazionali o internazionali e la musica da discoteca, andazzo che poi, purtroppo, è dilagato. Questo perché il patrimonio musicale viareggino non aveva avuto rinnovamenti al passo coi tempi.
Ecco perché volevo scrivere una canzone nuova, sia musicalmente che testualmente in modo da dare il via ad una sperimentazione, ad un’apertura che rinnovasse il nostro patrimonio musicale e che, come del resto era anche nelle intezioni del Comitato Carnevale, potesse farsi conoscere a livello nazionale.
Canzone nuova si, però canzone inequivocabilmente viareggina. Rinnovare una tradizione non significa cancellarla: significa estrarre da essa quella linfa che sia passibile di nuovi sviluppi. I “Coltellacci”, a ben vedere, sono una canzone di rottura fino ad un certo punto. Innanzitutto, il ritmo di “cha-cha-cha” è tutt’altro che nuovo e meno che mai inventato da me. Sarebbe andato benissimo anche nel ventennio delle canzoni classiche. Era una novità, e nemmeno assoluta, nel contesto delle nostre canzoni tradizionali. Analogamente il testo introduce parole, oggetti, lingua che sono nuovi sempre nell’ambito della canzone tradizionale, non in assoluto. Fra l’altro trovavo assai strano che in una canzone del Carnevale di Viareggio non si fosse mai scritto (o rarissime volte) in viareggino. Che problema è? Non dobbiamo mica avere dei complessi di inferiorità. La nostra è una parlata nobile come tutti i dialetti. La canzone napoletana è diventata celebre in tutto il mondo con testi napoletani. E allora? Un paradosso sostenuto dai detrattori della canzone, dai cosiddetti tradizionalisti, fu quello di aver considerato “di rottura” un testo viareggino! Dirò per inciso che io sono sempre stato convinto che il vero successo nasca dall’essere se stessi, non dalle scimmiottature di ciò che fanno gli altri. Pertanto, è la viaregginità che va esportata e non importato quello che fa il mondo: nel secondo caso è rischio inevitabile annacquare, travisare o distruggere ciò che è nostro.
Per queste ragioni sono nati I Coltellacci. E non solo per queste. Ma sarebbe troppo lungo tirarne in ballo tante altre che pure ci sono. Per gli amanti delle notizie storiche dirò che “Il Cha-cha-cha dei coltellacci” fu eseguito per la prima volta in pubblico al Teatro Eden nelle serate di festival del 29 – 30 – 31 gennaio e 1 – 2 febbraio del 1982. Lo spettacolo era presentato da Claudio Sottili. L’orchestra quella diretta dal maestro Luciano Maraviglia, che arrangiò magistralmente la canzone. Vinse “Da Viareggio con amore”, scritta da Egisto Malfatti e cantata da Egistino Olivi. Vincenzo Puosi, Bobo Pasquinucci e Silvio Paladini, gli altri coltellacci insieme a me, erano tre ragazzi che non avevano mai calcato un palcoscenico. E questo era ancora più bello: perché l’aveva “straccati” la strada. Furono straordinari e raggiunsero, sia detto ovviamente a livello locale, una popolarità e un’adorazione giovanile paragonabile a quella di cui godettero i Beatles. Ma, successo a parte, quello che mi piace ricordare in merito a questa canzone fu il fatto che essa scatenò un importantissimo dibattito sulle specificità della canzone carnevalesca viareggina, con liti spesso furibonde tra fautori del nuovo e difensori della tradizione, dibattito che dura tuttora.
Ogni tanto qualcuno mi ferma per la strada e mi dice “O Barghetti, quando li riscrivi un altro Coltellacci?” Vorrei tanto saperlo anch’io e poterlo pure promettere con sicurezza, ma credo che certi stati di grazia capitino una volta sola nella vita. Però niente vieta che possano risuccedere.
di Adriano Barghetti
Articolo pubblicato da Il Tirreno il 16.02.2012