Da: Il Tirreno, articolo di Fabrizio Brancoli
C’è chi scrive a penna, su un foglio strappato. Salgono le scale della nostra redazione e lasciano sulle scrivanie la loro malinconia, o lo sconcerto, o la furiosa richiesta di una spiegazione per i morti della stazione di Viareggio. Inchiostro di biro, grafie tremolanti. Sempre messaggi firmati, c’è orgoglio. A volte, solo per pudore, le inseriscono nella cassetta delle lettere, per non disturbare.
E c’è un muro virtuale, sul nostro sito web, dove la gente scrive in memoria di ogni singola vittima. È internet – che molti ingiustamente considerano figlia di un’era sociale senza sentimenti – il luogo dove liberare la tristezza più profonda. Decine, centinaia di messaggi piovono su quel sito da chi conosce i ventidue morti innocenti e da chi non li aveva mai visti, ma li sente ugualmente vicini. Dal suo computer Francesco si collega e scrive per Iman e Hamza, marocchini: «Buonanotte caro, buonanotte piccina. Spero che i brutti sogni siano finiti». Nello stabilimento balneare frequentato dai piccoli Luca e Lorenzo Piagentini, 5 e 2 anni, qualcuno ha messo dei fiori accanto ai giocattoli da spiaggia che i bimbi usavano al loro ombrellone. Non potranno fare più le formine e i castelli di sabbia. I brutti sogni non sono finiti.
Emanuela Milazzo, una delle vittime della strage, era anche una pittrice; dipingeva miniature e decorava le coperte per i bambini, con i simboli delle quattro stagioni. I viareggini sono tutti un po’ artisti; e piacerebbero a Robert Langdon, l’esperto di iconologia del Codice Da Vinci. Perché amano i simboli e i simulacri; amano il significato che sta dietro una cosa. Per esempio, amano le bandiere. Ogni strada, ora, espone tricolori a mezz’asta o con un nastro nero di stoffa o di nylon. È una triste parata, nessuno può ignorarla, eppure tutti continuano a lavorare nella grande fabbrica delle vacanze. Il mare non chiude.
In via Aurelia è spuntato un giardino del pianto, al di là della transenna che impedisce di avvicinarsi alle case dove è morta la gente. Ci portano fiori, lettere, dediche. Molti semplicemente ci sostano per una preghiera, o forse per una maledizione rabbiosa. Occhi gonfi di lacrime. Un bambino in pantaloncini e sandali appoggia un orsacchiotto, sembra un buffo castoro. Siete volati in Paradiso ma per sempre nel cuore rimarrete, firmato Oreste, su un biglietto. Un draghetto di pezza, due taniche di acqua per bagnare i fiori. “Piccoli angeli volati in cielo”, scrive Aurora in un disegno. E un disegno a pennarelli, sinistro, come sempre quando l’autore è un bambino turbato: c’è un groviglio di nero, marrone e viola. E in verde, sul fianco del foglio, un messaggio che graffia l’anima: Cattivo treno merci.
Dall’altra parte dei binari della morte c’è la via di scorrimento che porta alla stazione. Nella notte qualcuno ha attaccato a una ringhiera uno striscione bianco, tracciato con la vernice spray. C’è scritto “Risorgi ancor più bella, o viareggina”. È una citazione che qui pesa più di un passaggio di un romanzo classico; perché anche lei è un simbolo. È la canzone ufficiale del Carnevale anno 1946, l’ha scritta Gino Guidi con la musica di Icilio Sadun. La canzone della prima festa dopo gli orrori della guerra, il segno della rinascita. Eppure, scrive Alfonso in una email, di qualcuno è la colpa, «qualcuno troppo superficiale nei controlli, ma quello è materiale pericoloso. Lo sapevi e adesso, magari, te ne freghi. Magari sei al bar, magari stai dormendo tranquillo».
E c’è il ripristino della comunità. «Ci siamo rivelati di nuovo un paese», ha detto ieri un collega, durante una riunione nei nostri uffici a Viareggio. C’è un senso, solo viareggino, di essere “il migliore amico di”, come durante i mondiali di calcio, quando tutti sostengono di conoscere bene Marcello Lippi. È una voglia di contatto e di partecipazione, di vanto e di presenza.
Che in questa tragedia si declina nella commozione: io conosco quella famiglia, i loro bambini vanno a scuola con i miei, un mio cugino era in via Ponchielli poche ore prima che accadesse tutto, un mio parente è un soccorritore e mi ha raccontato scene agghiaccianti. Questa è Viareggio, paese per 63mila. Una città vera non ci riuscirebbe. Non potrebbe essere “amica di”.
Partecipare non è solo commuoversi. È anche documento e testimonianza. Un poliziotto ha scritto per raccontare, minuto dopo minuto, quello che è successo nella notte maledetta. Il boato dell’esplosione, il fuoco che sale in cielo, i poveri corpi dilaniati, quei bambini avvolti nelle lenzuola per essere portati via, l’angoscia per un lavoro che davvero ti fa rischiare tutto. In trenta righe un tecnico dell’azienda del gas racconta di come lui e i suoi colleghi abbiano staccato le condutture del metano, una per una, correndo nelle strade e tra gli allacci, mentre i contatori erano in fiamme o già fusi dal calore. Nella notte maledetta. Soffriranno anche a Carnevale, i viareggini. Perché sono abituati da sempre ad aggredire ogni demone e dissacrarlo con i colori e la cartapesta. Qualche anno fa hanno fatto sfilare un gigantesco carro nero per sfidare la morte. Vogliono spingere i mali del mondo sul burrone delle beffe, in bilico, per buttarli giù. Ci sono sempre riusciti ma questa volta non vorranno farlo.
Solitamente Viareggio è festosa, gioiosamente cialtrona. Oggi riscopre il valore della compostezza, non ci sono scene di disperazione pubblica, solo tante scelte di strazio privato. Viareggio dentro si incupisce, è annerita come un quadro di Viani; fuori no. Si piange di nascosto, ci sono i turisti, siamo a luglio e si gioca la partita di un anno intero. Non fermarti, lavora, servi ai tavoli, cucina il pesce, apri e chiudi gli ombrelloni, rastrella la sabbia, rassetta il letto della camera d’albergo, ospita, parla, intrattieni. Non pensare, non mostrare, non cedere. Non stavolta.