Riportiamo il testo, molto significativo, di un’intervista a Marcello Lippi, che il giornalista de IL TIRRENO Luciano Donzella ha raccolto il 14 aprile 2008 (il 12 aprile 2008 Lippi ha compiuto 60 anni).
Facciamo un salto indietro di 50 anni. Aprile 1958, Marcello compie 10 anni: che bambino è?
«Un bambino che cresce nella fascia di case che sta fra la pineta e la passeggiata, in via Roma; in precedenza avevo abitato in tanti posti diversi, sempre in affitto. Mio padre era commerciante, ma aveva cambiato diverse volte, con alterna fortuna: macelleria, pasticceria, frutta e verdura, rappresentante di dolci. Il piccolo Marcello vive a tempo pieno fra la pineta, in inverno, e il mare, in estate. In pineta frequenta il vecchio teatro Puccini, che in estate diventa cinema all’aperto. La pineta non era così pulita come ora, c’era un fitto sottobosco, sterpi, fossati seminascosti. Ricordo che correre in bici fin dentro i fossi era la nostra specialità, finché una volta che sono caduto il freno mi si è piantato nella pancia e sono finito all’ospedale, come anche quando un coccio di vetro mi è finito nella gamba e nel gluteo per una scivolata giocando a pallone. Già, il pallone: era una fissazione. D’inverno giocavamo negli stabilimenti chiusi, dovunque, anche nelle piscine vuote in mezzo alla melma».
Lei ha sempre vissuto a Viareggio?
«Fino a 16 anni sì, sono nato in casa, in via San Martino, vicino a piazza del Mercato, primo figlio maschio dopo una sorella di due anni più vecchia, e dopo un altro maschio nato morto. La mia nascita fu una grande felicità per tutti».
Parliamo degli anni della scuola…
«Non ho mai avuto un grande rapporto con la scuola, ho completato le medie in diversi istituti, poi nel 1964 sono andato alla Sampdoria e lì ho fatto corsi di inglese e francese. Fra gli insegnanti ricordo alle elementari il maestro Lucchesi, una persona molto paziente. E con me ce n’era bisogno».
A quel tempo era già un leader?
«Diciamo che esistono leader di vario tipo, chi è più carismatico, chi si fa seguire con l’esempio. Io ero bravo a giocare a pallone, la mia era una leadership tecnica, da giocatore. Da ragazzino ero una mezzala offensiva, facevo un sacco di gol; anche quando andai alla Samp con gli Allievi, ero il più alto di tutti e feci 35 gol, tantissimi di testa».
Dove ha iniziato a giocare?
«La mia prima squadra è stata il San Paolino, poi sono passato nel Sant’Andrea. Il primo cambiamento è stato quando dai santi, da don Camillo, sono passato a… Peppone. Dalle squadre della chiesa infatti sono andato alla Stella Rossa, una delle formazioni che andavano per la maggiore. La sede era il bar Aquila in piazza del Mercato. Al nostro livello c’era solo un’altra squadra, l’Iskra. La Stella Rossa, come dice il nome, era nata in un ambiente di sinistra, e il passaggio fu strano: sul pullman mentre andavamo in trasferta cantavamo Bella Ciao, Fischia il Vento, le canzoni partigiane. Lì sono rimasto due anni. Poi feci provini per Milan, Sampdoria, Fiorentina e Bologna. A Genova mi fecero firmare il cartellino, dopo qualche giorno mi chiamarono anche Milan e Fiorentina, ma ormai era tardi. Comunque ero felice, nessun rimpianto».
Se lei dovesse descrivere in poche parole a uno straniero la sua città, fargli percepire l’essenza, l’anima di Viareggio, cosa direbbe?
«Mi vengono in mente due cose: il mare, una grande risorsa, e il Carnevale, l’avvenimento più importante che coinvolge in modo forte tutti. Da bambino andavo a veder costruire i carri al Marco Polo, poi ricordo i corsi con una marea di gente, e un caleidoscopio di immagini e di colori: mi vedo con gruppi di amici a correre a perdifiato, dall’inizio alla fine, poi sui viali con le prime ragazzine. Sono bei ricordi».
Parliamo della città dove è cresciuto: siamo negli anni Cinquanta. Qual è la prima immagine che le viene in mente?
«La guerra era finita da poco, c’era una gran voglia di divertimento: la Versilia, poi gli anni della Bussola, l’estate con 250.000 persone sulle spiagge. Ricordo una città viva, la Passeggiata dove potevi incontrare cantanti, attori. Io non sono mai stato amante della vita mondana. A metà anni Sessanta avevo 20 anni. E non avevo una lira. Mio cugino, Roberto Bonetti, era però direttore della Bussola. Mi faceva entrare con le ragazze, facevo la mia figura, mi sedevo ai tavoli. Dopo un po’ arrivava lui e mi faceva capire che magari il tavolo era meglio lasciarlo perdere, potevo sedermi al bancone, molto meno costoso».
Ricorda qualcuno dei suoi vicini di casa, dei negozianti…
«Ci sono diversi personaggi di cui ho un ricordo nitido. A 8-9 anni ero vivacissimo, scappavo sempre. Ma tutti sapevano dove andavo, c’era libertà perché non c’erano grossi pericoli. Le giornate in estate le passavo nell’acqua, alla sera ero sulla spiaggia con i pescatori a tirare la sciabica. Spesso scappavo letteralmente a mia madre, che poi mi veniva a cercare. Ricordo un omone, un certo Gambini, che ogni volta che scappavo e mia madre mi chiamava, mi diceva “Vieni qui vigliacco, dove scappi…”. E ricordo i vari bagnini, perché cambiavamo sempre bagno, che ci tenevano d’occhio: eravamo sempre fuori, ma controllati un po’ da tutti».
Quali sono i luoghi chiave della sua città, e come sono cambiati nel tempo?
«Le nostre gite in bicicletta le facevamo alla Sassaia, o alle Cateratte dove c’erano le cave. Poi ovviamente la Darsena: io non la frequentavo tantissimo, perché abitavo lontano, ma lì avevo tanti amici. Stavano sempre al molo a fare muscoli, o a saltare fra le barche. E li invidiavo un po’».
C’è un posto che è stato la sua sliding door, dove ha imboccato una strada piuttosto che un’altra?
«La mia vita è cambiata quando sono andato alla Sampdoria: venivo a casa una volta al mese. No, non è stata dura, avevo talmente tanto entusiasmo che non sentivo neanche la lontananza. Mi ricordo bene però il primo giorno, era il primo settembre del 1964, una giornata caldissima. Mio padre mi aveva accompagnato. Per fare bella figura indossavo un vestito gessato con camicia rosa di flanella, tutto fradicio per il sudore. Come molti ragazzi, avevo paura di essere deriso a farmi vedere accompagnato, così dopo varie insistenze convinsi mio padre ad andare via. Subito dopo mi resi conto che ero rimasto solo, mi chiusi nel bagno e mi misi a piangere».
Nei suoi sogni di ragazzo, aveva mai immaginato di diventare quello che è oggi?
«No. Da ragazzo sognavo di giocare in serie A, ero innamorato di Rivera. L’allenatore? Ho avuto la fortuna di iniziare la carriera di professionista con Fulvio Bernardini, che aveva grande simpatia per me. Dall’alto della sua cultura – al tempo era uno dei pochi laureati nel mondo del calcio – e saggezza, mi ha mostrato una dote fondamentale per chi guida un gruppo: lui riusciva a imporre la sua personalità senza annullare quella degli altri. Per me è stato un punto di riferimento grandissimo, sarei felice di aver preso anche solo il 10% da questo grande personaggio».
Cosa rimpiange della città del passato?
«Chi vive in piccole città è sempre molto critico, invece io Viareggio me la sono sempre goduta, non ho mai giudicato negativamente i cambiamenti: se la passerella non è più come una volta ci sarà un buon motivo. Casomai ricordo che al vialone c’erano delle grandi fosse, stavano facendo dei lavori, in mezzo spuntavano pezzi di ferro ovunque: pericolosissime. Erano le nostre piscine, lì facevamo i tuffi rischiando il collo. Ecco, un po’ di nostalgia per le “piscine” c’è. e anche per quella spregiudicatezza infantile».
Cosa si aspetta dalla città del futuro?
«Vivo intensamente il porto, mi piace, lì ho tanti amici. Mi aspetto una continua evoluzione, ci sono grandi personaggi, forse la miglior cantieristica del mondo. Ho visto il progetto di ristrutturazione del porto, l’architetto è lo stesso che ha rifatto il porto di Barcellona. Mi aspetto una presa di coscienza da parte dei tanti che ancora pensano che Viareggio possa vivere del turismo estivo. Invece purtroppo è cambiato il modo di fare vacanza, non si va più un mese a Viareggio, si viaggia, ci sono i club, i centri benessere. Mi aspetto che Viareggio possa organizzarsi per vivere tutto l’anno, adeguando gli alberghi, realizzando centri congressuali. Perché la Versilia ha le carte in regola per diventare punto di riferimento per la congressistica non solo nazionale».
Per chiudere, mi dica un motivo per essere orgoglioso e un motivo per vergognarsi di essere figlio di questa città.
«Per vergognarsi non ce n’è uno, nella maniera più assoluta. Io sono innamorato di Viareggio, da 40 anni vivo fuori per lavoro, ma ogni volta non vedo l’ora di tornare, e non ho mai cambiato residenza. C’è una bellissima frase di Mario Tobino sul moletto: “Viareggio in te son nato e in te spero morire”. E devo dire con una punta di orgoglio che quella bandiera italiana rimasta a lungo appesa sul faro e le scritte sul molo in mio onore, mi hanno fatto battere forte il cuore».